LA COMUNICAZIONE TRA GLI ADULTI E NELLA COPPIA
DOPO LA DIAGNOSI DI MALATTIA NEOPLASTICA
La malattia neoplastica paralizza.
Paralizza le persone, paralizza le coppie, paralizza i nuclei familiari. Paralizza emozioni, progetti, parole. Paralizza i pensieri e le azioni.
La diagnosi di malattia neoplastica genera una naturale (e comprensiva) perdita di orientamento all’interno della quale tutto appare nebuloso, incerto, indefinito. E’ proprio questa condizione di “incertezza” che richiede un importante sostegno nel lavoro di recupero di quelle capacità e di quelle risorse che sembrano temporaneamente inaccessibili.
Partiamo da un assunto di base, meravigliosamente comunicato anche dallo spot Iris Roma Onlus per la prevenzione del Tumore Ovarico (https://www.youtube.com/watch?v=anT6Pie1ihA): la malattia non identifica una persona: il tumore non cancella una storia di vita. Non cancella la cultura, la formazione, l’appartenenza; non cancella le capacità, le passioni, le attitudini; il tumore non cancella la famiglia, le relazioni, i legami.
Indubbiamente il tumore modifica tutto questo: una diagnosi oncologica prevede una riorganizzazione di se stessi e della propria quotidianità. Occorre però ricordarsi sempre che la malattia ci impone dei limiti…non un confine. La differenza è sostanziale: i limiti sono fatti per essere superati, i confini sono rigidi, imposti, impossibili da superare. Se vivo la malattia come un confine, la mia tendenza sarà quella di utilizzarla come “strumento” per restare dove sono, per “crogiolarmi” nella paralisi in cui mi trovo, per avere sempre pronta “una scusa” da dire a me stessa e agli altri. Se la vivo come un limite, saprò motivarmi – con il giusto tempo – a guardare oltre, a rimettermi in movimento, a superare quei paletti che la malattia mi impone per riabilitarmi alla vita.
A chi posso dirlo? Chi può comprendere quello che sento? Nessuno sembra in grado di capire fino in fondo quello che stiamo provando, come ci sentiamo, le paure che ci assalgono, la crisi profonda che stiamo vivendo. Talvolta la scelta più “coraggiosa” per le nostre pazienti appare quella di sospendere la comunicazione, di non dire nulla a nessuno, di tenere per sé il dolore e la sofferenza. Appare coraggiosa perché ci dicono “che siamo forti”, perché cosi evitiamo di caricare gli altri della nostra sofferenza, perché il “non dire” ci aiuta a non “sentire”, perché questo ci evita lo sguardo compassionevole di chi ci sta intorno, troppo difficile da tollerare. Il bisogno di condividere, di parlarne, resta tuttavia irrisolto se chiudo ogni canale di comunicazione nell’attesa di trovare “la persona giusta”. Se anche ho la sensazione che nessuno possa comprendere fino in fondo, e se anche questo fosse vero, devo pensare che la comunicazione viaggia a vari livelli e su diversi piani. In questo processo parlare con uno psiconcologo, per esempio, può essere efficace poiché consente di aprirsi e di condividere senza la paura di appesantire o di caricare; la figura dello psiconcologo in questo momento è importante sul piano della consapevolezza: tale figura possiede gli strumenti per rielaborare i contenuti che la paziente comunica in forma disordinata e spesso inconsapevole, e restituirglieli dando loro un senso, una forma più definita, consentendo dunque alla paziente di avviare un processo di riconoscimento, elaborazione e metabolizzazione della propria malattia e delle proprie emozioni.
Non meno importanti in questo momento sono gli amici e i familiari. La comunicazione in questo caso serve ad alleggerire un peso, a dividere il carico, a concedersi il diritto di essere malati. Serve anche a restare legati al proprio contesto di appartenenza: non sono la mia malattia, ma attraverso la malattia mi relaziono con gli altri ed imparo a chiedere aiuto. Se non riesco a parlarne con le persone care, significa che ho delle resistenze – di vario genere – che non mi consentono di esprimermi autenticamente.
Perché accade questo? Accade perché il primo passo per poter comunicare con gli altri è l’accettazione di sé e della propria malattia. Meglio ancora: di sé come persona malata. Se posso accettare, posso vedere; se posso vedere, posso parlare; se posso parlare, posso comunicare. Se comunico, sopravvivo. Se comunico, alleggerisco il carico. Se comunico, rimetto in moto emozioni e pensieri. Se comunico consento agli altri di comprendere.
Se gli altri comprendono, impareranno ad aiutarmi.
Ma occorre metterli nelle condizioni di farlo, è necessario imparare – e in questo è importante il sostegno dello psiconcologo – a riconoscere le proprie emozioni, a dargli un senso, un significato all’interno e nel contesto del percorso di cura che sto affrontando. Aiutare ed essere aiutati è qualcosa che si impara insieme, in una relazione autentica in cui tutte le figure coinvolte si mettono a nudo ed autenticamente riconoscono ed esprimono le proprie emozioni.
All’interno di ogni nucleo familiare è di fondamentale importanza identificare un care-giver, cioè colui, o colei, che più degli altri è preposto a prendersi cura della paziente. Tale ruolo è immediato e naturale: non si sceglie il proprio care-giver, né d’altra parte si sceglie di esserlo. Lo si diventa per attitudine, per capacità, per empatia, per il ruolo che si ricopre nella vita della paziente, per questioni a volte legate alla logistica, alla pratica, alla presenza.
Il care giver può diventare un facilitatore della comunicazione: lavorare bene con il care giver da un punto di vista psicologico, significa avere un canale di accesso in più per arrivare a comunicare con la paziente, e anche per capire cosa prova, come sta vivendo la sua malattia, quali sono le sue necessità e i suoi bisogni talvolta inespressi.
Come cambia la comunicazione tra due persone adulte dopo una diagnosi oncologica? La comunicazione cambia inevitabilmente, ma in modo mai univoco, piuttosto estremamente variabile e soggettivo. Cambia il modo di comunicare nella sua forma e nella sua sostanza: questo avviene perché cambia la prospettiva di tutti gli interlocutori coinvolti nel processo: cambia la progettualità, cambia il senso personale dello spazio e del tempo, cambia la scala valoriale, si modifica il processo di attenzione selettiva, il che significa iniziare a prestare attenzione a cose prima insignificanti – o poco rilevanti -, cambia la percezione di sé e della/e persone che abbiamo accanto. La comunicazione non è più dettata e motivata dalla necessità o dal piacere di “dire qualcosa”, quanto piuttosto dalla “paura di sentirsi rispondere – o non rispondere – qualcosa”.
Abbiamo notato, in tanti anni di lavoro, che molti familiari – o comunque molte persone che vivono la malattia accanto alla paziente – hanno la tendenza a rendersi utili nella gestione pratica e quotidiana del percorso di cura: ti accompagno, ti cucino, ti porto, ti prendo, ti compro…Questo voler fare è un meraviglioso (quanto temibile) strumento difensivo che consente alla maggior parte delle persone di “non pensare”. Fare qualcosa rende meno necessario il pensare a qualcosa, allontana il pensiero, e consente di sentirsi utili senza in fondo esserlo realmente (o in modo parziale). La donna affetta da malattia oncologica ha senza dubbio bisogno dell’una e dell’altra cosa: ha bisogno di aiuto pratico, logistico, operativo…cosi come ha estrema necessità di qualcuno che possa esserci, semplicemente esserci per accogliere, per contenere, per ascoltare. Questo secondo ruolo è il più duro e il più difficile. Esserci significa saper gestire un carico emotivo non indifferente, saper tollerare i silenzi, sapere ascoltare ed accogliere la risonanza che generano le proprie emozioni amplificate nell’incontro con quelle dell’altro senza fuggire, senza averne paura. Solo riconoscendole come proprie, e dunque accettandole.
Non meno importante il cambiamento della comunicazione all’interno della coppia. Il mio compagno saprà affrontare tutto questo insieme a me? E’ una domanda lecita, che trova risposta solo nel tempo. Siamo rimaste a volte sorprese dalla grande capacità di confronto e di sostegno in giovani compagni o partner presenti da poco nella vita della paziente, quanto dalla grande difficoltà o dalla incapacità emotiva di gestione della malattia da compagni o mariti presenti da sempre. Questo significa che nulla nella malattia è prevedibile, come nulla – o poco – è prevedibile nella relazione. Certo appare più semplice ed immediato riporre fiducia e sentirsi sostenute da qualcuno che da sempre ci sostiene e ci è accanto…cosi come potrebbe apparire più difficile e “rischioso” mettersi in gioco con un compagno che forse conosciamo ancora poco e che temiamo posso utilizzare la malattia come “scusa” per mettere una distanza, per allontanarsi.
Non c’è una regola in realtà: non deve esserci perché in questo momento la priorità siamo noi. Quante volte abbiamo sentito dire “non me la sento…”, “ho già tanti problemi…”, “non sarei in grado di starle accanto…”, oppure “certo che dopo tanti anni insieme questa non me la meritavo…”, o “proprio ora che volevo godermi un po’ la vita non posso fare più nulla…”, come se il tumore fosse una scelta, o un peso che si vuole dare ad altri. Quante altre invece, abbiamo scoperto uomini pronti a farsi carico della fatica più grande, ad amare incondizionatamente, a condividere con fatica ma con rispetto le vicende legate alla malattia.
Molto può dipendere – aldilà della “durata” del legame – dal tipo di relazione della coppia antecedente alla malattia: se la relazione era sana e gratificante per entrambi, è più facile restare e condividere il disagio e la malattia con il progetto e la motivazione di ritrovare, al termine delle terapie, lo status precedente. Pertanto la comunicazione tra i partner sarà verosimilmente autentica e soddisfacente. Se la relazione pre-malattia presentava invece delle difficoltà e/o dei disagi – più o meno espressi o consapevoli – allora sarà più probabile che la malattia venga utilizzata come occasione di fuga e allontanamento, anche se questo meccanismo non è mai razionalmente elaborato. La comunicazione sarà dunque più complessa e carica di angoscia.
Proprio questo timore – quello di essere abbandonate, quello di sentirsi un peso per l’altro – rende a volte complicata la comunicazione e fa mettere alla paziente un freno rispetto alla reale necessità di un confronto e di un sostengo.
La verità è che non possiamo sapere come reagiranno le persone di fronte alla malattia, nemmeno le più care. Per questo la cosa importante è imparare ad ascoltare se stesse, dare spazio alle proprie necessità, ai propri bisogni, in una sorta di regressione lecita e funzionale: parlare, se desideriamo farlo; appoggiarci, se da sole non ce la facciamo; chiedere, se abbiamo bisogno; tacere, se le parole non trovano una strada; piangere, se non riusciamo a trattenere le lacrime; urlare, se la rabbia ha bisogno di uscire; raccontare, esprimere, comunicare.
Chi non è in grado di restare, dovrà imparare a tornare.
Dott.ssa Letizia Lafuenti
Psico oncologa c/o Reparto di Ginecologia Oncologica
Polo della Scienza della Salute della Donna e del Bambino –Policlinico Gemelli,Roma