Quinto incontro del nostro gruppo. Le donne, ormai legate da qualcosa che le rende uniche e speciali, ci fanno dono oggi di un nuovo pezzetto della loro storia. Il “compito” loro assegnato la volta scorsa era quello di portare al gruppo uno o più oggetti che fossero rappresentativi del loro percorso di cura, e di scrivere, naturalmente, le loro riflessioni in merito.
U., che per motivi di lavoro non ha più modo di partecipare ai nostri incontri,
ci scrive una lettera:
“Carissime, come già sapete non sarò fisicamente presente al vostro incontro di gennaio, ma voglio dire la mia anche se mi rendo conto di essere un po’ fuori tema con questo mio scritto. Voi chiedete di portare un oggetto che sia rappresentativo di emozioni legate alla malattia. Penso che sia troppo scontato far assurgere a simbolo una parrucca o una sacca per la stomia, ma anche attribuire valore scaramantico e terapeutico al gattino di pelouche sostituto dei due veri, lasciati a casa. Dovrei portare non un oggetto, ma una sensazione che arricchisce ancora oggi il portafoglio dei miei valori. La sensazione di essere sganciata da mille ragnatele, senza valori condizionanti, se non quelli di libertà, libertà dalle cose, dagli affetti, dalla malattia, dalla vita…Una sensazione potente di immortalità! Vi abbraccio tutte soprattutto chi è stata poco bene”
Inizia la condivisione V., e ci presenta due oggetti significativi: un rosario (che non può portare con sé perché ne ha fatto dono ad una donna con cui ha condiviso un ricovero), ed un santino di Padre Pio, a cui sente di essere devota anche per aver ricevuto da lui in dono “una specie di miracolo…” relativo ad alcune sue importanti scelte di vita.
R. è la seconda. Ha portato con sé tre oggetti, come ci racconta, il primo è relativo alla prima malattia, il secondo alla recidiva, il terzo oggetto invece è un minimo comune denominatore tra i due, una costante. Il primo oggetto è un gomitolo di lana (poiché nella prima malattia non faceva altro che preparare sciarpe e cappelli…), il secondo oggetto sono delle capsule di caffè schiacciate, poiché durante la seconda malattia, R. ha imparato l’arte del riciclo creativo, ed ha iniziato a creare bellissimi gioielli con le cialde del caffè riciclate (ne ha fatto dono a tutte le partecipanti al gruppo per Natale). Il terzo ed ultimo oggetto è un libro di Tiziano Terzani, “Un altro giro di giostra”, che lei descrive come “un libro che insegna che ciascuno di noi deve coltivare quella capacità di saper vedere che oltre la malattia e il buio, c’è anche dell’altro…che bisogna andare oltre”. Dopo aver presentato gli oggetti, ci legge il suo primo scritto dall’inizio del nostro percorso, e sorridendo ci dice che ora che ha iniziato non riesce più a fermarsi! Ricorda al gruppo che lei aveva perso (o credeva di aver perso!) la capacità di scrivere, poiché da sempre scriveva solo e sempre di cose brutte, tristi…e siccome qui nel gruppo era serena, e la malattia l’aveva nella sua testa messa da parte, non riusciva a scrivere più nulla. Poi, ci racconta, l’altro giorno ha iniziato di getto, e ora non riesce a fermarsi. Si rende conto solo ora che sta iniziando adesso ad elaborare la malattia…Ora decide di entrare davvero nel gruppo mettendo in gioco se stessa e le sue emozioni…Per lei è un punto di non-ritorno. E, aggiungo, anche per noi, tutte commosse dalla “prima volta” di R.
C. prende il testimone, e ci legge il suo prezioso contributo: “…Fino a questa mattina non ero riuscita a scrivere nulla, poi mentre ero in cucina a trafficare, ho aperto la finestra e mi sono sentita un’ondata di caldo addosso, come invasa dal sole…e allora ho sentito l’ispirazione, ed ho iniziato ascrivere!”. Non ha portato con se nessun oggetto, il suo simbolo, dice, è stato suo marito…per loro la malattia è stata un nuovo modo di stare insieme, di condividere, di parlare. La malattia li ha uniti, l’amore quindi è il simbolo che la rappresenta.
T., vulcanica come sempre, fa dono a tutte noi di una copia del suo libro “Il Gran Premio della Vita”, con tanto di dedica personale dell’autrice! Ci racconta che durante la sua malattia ha iniziato a distaccarsi dalle cose materiali, dagli oggetti, ed ha sviluppato invece un grande attaccamento alle persone. Per questo non ha avuto un oggetto-simbolo durante il suo percorso di cura, anzi, dice, “ho approfittato per buttare un bel po’ di cose”. L’unica cosa che è rappresentativa per lei è il suo primo viaggio con la malattia, e con le sue amiche, e simbolo di quel viaggio è Juliette (un manichino che ha acquistato durante un viaggio a Parigi con le amiche, e che con amore ed ironia ha portato con sé dalla Francia fino a farlo rivivere nella sua casa).
Divertente il dialogo tra T. e V. che, incuriosita dalla storia di Juliette, le chiede: “…aspetta, spiegami meglio sennò ti prendo per matta! E’ affascinante sapere perché ti sei affezionata a questo manichino…!”. Cosi T. ci racconta la storia del suo “amore a prima vista” con questo manichino di bambù (si tratta in realtà di un servo muto), che ha incontrato nel castello di Ussé, e che ha deciso di non lasciare più. Ci ha portato anche delle foto di Juliette, che ha vestito, e alla quale ha messo un volto ed una parrucca (regalati da una coppia di amici). T. ci legge, per concludere, una poesia dedicata a Juliette.
Certo può sembrare un po’ bizzarro il racconto di T. per chi legge queste righe. Ma, per fugare ogni dubbio, precisiamo che non si tratta di follia, né di eccentricità. T. ha trovato in Juliette un punto di riferimento stabile, significativo, certa che non sarebbe mai scappata, che non l’avrebbe lasciata sola, che non avrebbe avuto paura della sua malattia e dei suoi momenti più bui. Certa che non l’avrebbe fatta soffrire. Forse di questo aveva bisogno T. in quel momento della sua Vita, ed è questo che il cuore ha cercato e desiderato trovare. Poiché nel dolore tutti abbiamo bisogno di condivisione, di legami, di affetti.
E’ il turno di M., il suo oggetto è un borsellino pieno di rosari di ogni tipo che le persone le portavano in negozio e le regalavano augurandole di guarire. Una notte, ci racconta, mentre era ricoverata si è trovata davanti tanti angeli, uno dei quali aveva il volto di suo padre. Da quel giorno è stata bene, si è sentita accompagnata. Quando M. racconta degli angeli, le altre donne si commuovono, T. racconta della sua personale esperienza con gli angeli di Lourdes e ci addentriamo nel tema della religione e dell’importanza che per molti ha la fede nell’affrontare la malattia.
V. ci legge oggi quanto scritto la volta scorsa sul tema “La malattia. Cosa mi ha dato, cosa mi ha tolto”, poiché non aveva potuto partecipare all’incontro. Ci dice che più che la parola “cancro”, è stata la parola “chemio” che l’ha turbata e con la quale ha dovuto imparare a convivere. Non si aspettava di doverla fare, i medici le avevano detto, dopo l’intervento, che era tutto a posto e che non avrebbe dovuto fare più nulla. Ha scoperto di dover fare la chemioterapia il giorno in cui, serena e ignara, le hanno riferito dell’esame istologico e l’hanno informata che avrebbe dovuto iniziare subito le terapie.
Da questo racconto di V. parte un filone di discussione importante le per le donne presenti, che è il tema della comunicazione, di come i medici a volte parlino con le pazienti senza rendersi conto che hanno il potere enorme di massacrarle, di annientarle.
Anche P. racconta la sua esperienza, operata mentre la figlia era di rientro dall’estero per un viaggio con la scuola, si è trovata in macchina con lei mentre “al telefono, senza troppi preamboli e nessuna domanda su dove fossi e se potessi in quel momento parlare, mi hanno detto che avrei dovuto fare chemioterapia. Mi sono sentita le gambe mancare, la sensazione improvvisa di vuoto, di smarrimento, di confusione…e non potevo dire nulla a mia figlia”. Riferisce che quando ha fatto presente al medico che la chiamava che forse avrebbe dovuto valutare meglio se fosse il caso o meno di dire quelle cose in quel dato momento, si è sentita rispondere “siete tante, non possiamo sapere dove siete tutte voi quando vi chiamiamo”.
Le pazienti ci chiedono esplicitamente e con forza di portare questo messaggio a tutti i medici con cui quotidianamente ci confrontiamo, proprio nell’ottica di aiutare le altre pazienti, donne che come loro riceveranno questo tipo di comunicazioni, a non essere travolte dalla drammatica notizia dell’esito di un esame istologico, o dell’inizio di una chemioterapia, con la sensazione di morire in un momento. La comunicazione è certo uno strumento importantissimo ed imprescindibile nella relazione medico-paziente; non si tratta solo di “dire” le cose, quasi come per assolvere ad un compito, ad un impegno, ad un dovere…si tratta di trasmettere, di comunicare empaticamente, di dedicare tempo a chi in quel preciso momento ha la sensazione di non averne più, di chiarire, di motivare, di contenere.
C. infine ci legge il suo scritto. Il suo simbolo è il cappello, che durante le terapie (cosi come nel nostro primo incontro di gruppo), “…copriva tutto, testa e collo!”. Lo usava, dice C., per essere invisibile, per sentirsi protetta. Non aveva mai comprato cappelli prima della malattia, pensava non le stessero bene. Oggi invece ne ha tanti, li compra, li indossa, li cambia…forse oggi non le servono più ad essere invisibile, ma ad essere vista.
Ci lasciamo con un nuovo “compito per la prossima volta…e con l’idea, nata oggi dalle presenti, di programmare una serata di gruppo (qualcuna propone addirittura un weekend!). Forse davvero sono donne un po’ diverse oggi, che nel confronto si sono arricchite reciprocamente delle esperienze altrui, e che hanno messo in discussione molto più di quanto avrebbero pensato.
Storia di un manichino (Juliette)
Da diversi mesi ti cercavo invano.
Poi ti ho vista, subito ho detto:
“finalmente ti ho trovata”!
Te ne stavi lì
tra tanti altri oggetti
di un negozio di souvenir del castello di Ussé.
Imballata con cura
all’aeroporto ci hanno separate,
durante il volo temevo per la tua incolumità.
All’arrivo bagagli,
quando ti ho rivista,
ho capito che non ci avrebbero più divise.
Oggi vegli i miei sonni
e custodisci i miei sogni.
Juliette
Non ho un oggetto rappresentativo della malattia. Anzi, in quel periodo, ho iniziato a distaccarmi dagli oggetti e a “far pulizia”, buttandone molti. Avevo capito che per me contavano le persone e le emozioni dei momenti che potevo vivere. Da qui il progressivo distacco da tutto ciò che è materiale.
Oggi c’è un oggetto cui sono affezionata perché cercato e trovato durante un viaggio che ho fatto con le mie amiche dopo la malattia.
Si tratta di Juliette, un manichino che ho incontrato nel castello di Ussé. A lei ho dedicato una poesia ed oggi troneggia nella mia camera da letto. L’ho fotografata insieme a “Principessa d’Oriente”, altro manichino nato durante il viaggio in Cina grazie alla complicità della stessa amica con cui tanto ho condiviso e che mi è stata accanto con discrezione.
Ora anche loro fanno parte del nostro gruppo di scrittura terapeutica.